Tutti hanno uno scheletro nell’armadio, il mio è in cantina, fuma il sigaro, veste impeccabile e mi aiuta a tornare a scrivere.
Erano mesi che non riuscivo a scrivere. Restavo sempre bloccato sulla pagina bianca. La fissavo anche per ore ma non riuscivo a scrivere nemmeno una parola. Ero in crisi. Sono sempre stato una persona che non credeva nel blocco dello scrittore, avevo sempre la convinzione che bastava avere una certa disciplina, serviva solo sedersi e scrivere. Invece niente, non riuscivo più a trasformare i pensieri in parole e la pagina rimaneva come una tela immacolata. Non dormivo più, non mangiavo più. Iniziavo ad essere ossessionato dal mio blocco. Non c’era niente che funzionasse, niente passeggiate che riuscivano a schiarirmi le idee, niente letture che stimolavano la mia fantasia, non riuscivo nemmeno a capire quale fosse il problema di tutto questo, quale sia stata la causa scatenante di questo mio blocco. Il mio umore era pessimo.
Ero seduto alla scrivania del mio studio, nella soffitta di casa. Guardavo di fuori in giardino, la pioggia autunnale cadeva sulle foglie e sulla casa che mi ero riuscito a permettere grazie ai miei primi e unici tre romanzi.
Abitavo a New York prima, nella frenetica grande mela facevo dei lavoretti precari per andare avanti nella speranza di sbarcare il lunario. Poi decisi di scappare da quella frenesia e visto che finalmente potevo permettermelo, sono venuto a vivere qui in New Jersey. Il primo romanzo, che mi valse il premio per scrittori esordienti, mi lanciò nel mondo dei scrittori. Non potevo crederci, stava succedendo tutto così in fretta che non ci avevo capito più niente. Le vendite del mio libro schizzarono alle stelle, la critica mi elogiava, “finalmente una nuova voce si è fatta sentire in questo piattume moderno”. Si aspettavano grandi cose da me. Con i guadagni del libro riuscii a permettermi di cambiare vita, sposare la donna che amavo e iniziare a costruire il mio futuro.
Karen rimase incinta dei due gemelli poco dopo il nostro matrimonio. Conobbi Karen in una caffetteria a New York, al Village, il Josie Wood's Pub NYC. Io andavo all'università e facevo dei lavori saltuari. Anche lei per mantenersi gli studi universitari e diventare insegnante, lavorava lì come cameriera e molto spesso mi vedeva chiuso nel mio mondo intento a scrivere su dei vecchi taccuini con una stilografica, mentre tutti tendevano a lavorare sui loro portatili. Mi piaceva scrivere nei bar in mezzo alla gente, in qualche modo riuscivo a isolarmi dal resto del mondo per entrare nel mio. Fu lei a fare il primo approccio e incuriosita mi chiese cosa stessi scrivendo. In quel periodo stavo gettando le basi per il mio primo romanzo. Ero al culmine della mia fase creativa e l’incontro con Karen amplificò questa vena creativa. Ci andavo spesso in quella caffetteria nel tempo libero e iniziammo a frequentarci anche al di fuori di quel posto di lavoro. Non passò molto tempo che ci innamorammo perdutamente l'uno dell’altra. Dopo un anno decidemmo di andare a convivere. Fu un periodo stupendo, spensierato, creativo. Ci prendemmo un piccolo appartamento al Village. Passavamo il tempo libero ad ascoltare vinili sul mio giradischi e facevamo l’amore con la musica di Springsteen di sottofondo. Ero ispiratissimo in quei giorni lontani. Riuscii a finire il mio romanzo dopo innumerevoli revisioni e provai a partecipare ad un concorso per scrittori esordienti. Lo vinsi e la mia vita cambiò.
Finalmente potevo permettermi uno stile di vita meno precario. Sia io che Karen, per quanto amassimo la nostra vita al Village, sognavamo un futuro in un posto più tranquillo, una casa più grande con uno studio dove potessi scrivere in tutta tranquillità e senza essere più travolti dalla frenesia della grande città. Anche Karen dopo la laurea, avrebbe voluto insegnare in una scuola media in un contesto più tranquillo. In New Jersey c’erano diversi concorsi per diventare insegnanti e così decidemmo di venire a vivere qui, all’angolo tra la 77 e 78th St North Bergen, New Jersey. A due passi dal bellissimo James J. Braddock North Hudson County Park, grande fonte di ispirazione per me. Amavo sedermi sulla panchina davanti al lago e scrivere sul mio taccuino idee e appunti per le mie storie. In questa nuova vita, mi buttai a capofitto a scrivere il mio secondo romanzo. Ero un vulcano di idee e scrivevo tutti i giorni in preda a quell’euforia creativa che ormai è un ricordo sbiadito.
Pubblicai il secondo romanzo un paio di anni dopo l’uscita del mio primo libro. La critica lo elogiò molto specificando però che il romanzo di esordio aveva un qualcosa in più, una scintilla che lo faceva brillare nel panorama editoriale di quegli anni. Però rimaneva molto positiva e si aspettava grandi miglioramenti per il terzo libro. Le vendite superarono quelle del primo libro, mi ero fatto un nome, ero diventato popolare e rimanevo in vetta alle classifiche per parecchie settimane di seguito. I soldi erano sempre di più e non erano più un problema. Gli anni precari erano un lontano ricordo. La mia vita era cambiata anche con l’arrivo dei due gemelli, Leonard e Sophia. Tutti questi veloci cambiamenti avevano cominciato a farmi venire grandi dubbi. Mi chiedevo come fosse possibile che uno come me abbia raggiunto queste vette di successo grazie alla scrittura. Era stato da sempre il mio più grande sogno, quello di vivere di scrittura. Stentavo a crederci e non potevo certo fermarmi. Ci si aspettava molto da me. Iniziai a scrivere anche il mio terzo romanzo. Ci misi più del previsto, quella vena creativa che mi aveva dissetato per i miei primi due libri cominciava a esaurirsi. Cominciavo a sentirmi un impostore. Una persona che non meritava tutto questo successo. Un tizio qualunque che ha avuto una fortuna sfacciata in un paio di occasioni e nulla più. Una meteora destinata a spegnersi molto presto.
Poi uscì il mio terzo romanzo. Fu un bagno di sangue, la critica mi stroncò. La fine di grandi aspettative. Le vendite non andarono bene quanto i primi due romanzi. Vendevo ma non ero riuscito neanche a entrare nella classifica dei primi venti libri. La mia delusione fu totale. Si rafforzò in me l’idea che tutto questo successo improvviso fosse stato solo un colpo di fortuna e non dovuto a un qualche mio talento particolare. Non ero una persona speciale, ero solo uno scrittore qualunque che per un periodo ha avuto la fortuna di azzeccare un paio di libri. Tra qualche tempo nessuno si sarebbe più ricordato di me. La fine di un sogno durato poco tempo. Avevo perso fiducia in me stesso e nelle mie doti di scrittore. Sulla scrivania lampeggiava il cursore del mio software di scrittura su una pagina bianca. Non scrivevo da mesi.
Leggere le recensioni del mio terzo romanzo mi faceva stare ancora peggio. Più ne leggevo e più mi sentivo scoraggiato a scrivere. Come un tossico alla ricerca di una dose, non riuscivo a staccarmi dalla lettura di queste recensioni negative.
Poi successe qualcosa che cambiò per sempre la mia vita.
La prima volta che mi accorsi dello scheletro in cantina fu una notte di molto tempo fa. Fui svegliato da uno strano rumore, come lo strusciare un qualcosa di metallico su una superficie ruvida. Lo potevo sentire chiaramente, era leggero e lontano, eppure continuavo a ronzarmi nelle orecchie. Mi alzati dal letto e andai ad indagare. Karen stava dormendo. Scesi al piano di sotto attento a non far rumore e svegliare i bambini. Sceso al piano terra continuavo a sentire quel rumore. Proveniva dalla cantina. Sotto il piano terra c’è un grande scantinato, dove nel tempo, abbiamo riposto tutte le nostre vecchie cose.
Mi avvicinai alla porta, il rumore, seppur leggero, lo potevo sentire sempre più distintamente. Aprii la porta e il rumore era sempre più penetrante nella mia testa. Cominciai a scendere le scale, le sentivo scricchiolare sotto i miei passi, l’orologio che avevo al polso mi diceva che era circa l’una e mezza di notte. Sceso in cantina svoltai l’angolo delle scale. L’odore di chiuso mi entrò nel naso. Poi lo vidi, seduto ad un vecchio tavolo di legno c'era la figura di un uomo. Sul tavolo la vecchia lampada verde oro. La stessa vecchia lampada che per anni aveva illuminato i miei pensieri sulla carta. La figura l’accese e uno scheletro vestito in smoking mi si parò davanti. Gli occhi erano delle orbite vuote e nere. Sembrava avere un ghigno. Sul tavolo c’era un mio vecchio accendino, si accese il sigaro che aveva tra i denti e cominciò a fumare mentre le sue orbite vuote e nere continuavano a fissarmi. Mentre fumava poi distolse all’improvviso lo sguardo e si mise a scrivere con una bellissima stilografica su un taccuino rosso. Dopo qualche minuto mi volse di nuovo lo sguardo e le due orbite vuote che sembravano dei buchi neri iniziarono di nuovo a fissarmi. Fece cenno di avvicinarmi.
-Chi sei?- chiesi terrorizzato.
-Io sono una metafora.-
-Una metafora?-
-Si una metafora, una TUA metafora, una metafora del TUO spirito creativo….come vedi sta morendo. Che altra forma avrei potuto avere?-
-Non capisco…-
-È semplice, la tua creatività sta morendo. Io ne ho preso la forma.-
-Spero che ti renda conto che non è molto semplice da capire.-
-Sì, è vero, ma col tempo capirai….-
Non sapevo cosa pensare, inizialmente ero terrorizzato, ma poi a poco a poco mi tranquillizzai. Non percepivo nessuna minaccia da parte di quell’essere. Che diavolo ci faceva uno scheletro ben vestito, che fuma un sigaro e che scrive con una stilografica su un taccuino rosso nel mio scantinato? Di mio sono un tipo che riflette molto su tutto, sulle parole e su quello che dovrei dire. Soprattutto quando devo prendere una decisione. Quello che avevo appena ascoltato necessitava di una riflessione profonda. Uno scheletro apparso dal nulla si trova nella mia cantina, fuma un sigaro e scrive con un’elegante penna stilografica su un taccuino rosso. Mi ha appena detto di essere una MIA metafora. La metafora della mia morte creativa.
-Pensaci bene, non ho fretta. Mi potrai trovare sempre qui tutte le notti. A quest’ora mi piace scrivere.-
A quel punto decisi di tornare al letto. Dovevo riflettere. Mi addormentai subito.
La giornata la trascorsi in un uno stato confusionale. Ero molto taciturno. Anche mia moglie mi chiese cosa avevo che non andava, ma non sapevo proprio cosa risponderle. Mi chiedevo se quello che avevo visto la notte scorsa non fosse stato altro che uno strano sogno.
-Non ho niente Karen, ho solo dormito poco stanotte…-
Non riuscivo a scrivere ormai da mesi. Questo pensiero mi ossessionava tutti i giorni e magari questa ossessione era sfociata in questo sogno assurdo. Magari qualcosa stava cambiando dentro di me. Avevo bisogno di schiarirmi le idee e decisi di fare una passeggiata al James J. Braddock North Hudson County Park. Due passi intorno al laghetto pensavo che mi avrebbero schiarito un po’ le idee. Una metafora dalle sembianze di uno scheletro. Sembrava quasi lo spunto per una storia. Una buona storia.
Avevo portato con me un taccuino e una stilografica come ai vecchi tempi. Mi sarei fermato in qualche posto tranquillo e avrei provato a scrivere. Ma già sapevo che non sarebbe successo, un tempo scrivevo ovunque, appena mi veniva un’idea in mente, ovunque fossi tiravo fuori taccuino e stilografica e scrivevo. Mi sembra ormai passato un secolo da quel periodo.
Mentre mi trovavo seduto sulla solita panchina a guardare il lago ecco che quel senso di vuoto mi aveva di nuovo pervaso. Avere tra le mani la stilografica e il taccuino non serviva a niente. La mia mente si rifiutava di mettere sulla pagina qualche parola. Nella testa solamente il vuoto totale.
Forse l’unico a potermi aiutare a superare questo momento poteva essere proprio lo scheletro. Avrei chiesto a lui come superare questo mio blocco dello scrittore. Come ritrovare il mio spirito creativo. Quella notte stessa sarei tornato in cantina e avrei affrontato la mia morte creativa. Sempre se quello che avevo vissuto la notte prima non fosse stato altro che il frutto della mia immaginazione. Probabilmente stavo delirando, lo stress di questa situazione e il mio malessere mi stava portando a immaginarmi uno scheletro nello scantinato.
Come immaginavo, anche quella notte non riuscivo a prendere sonno. Continuavo a rigirarmi nel letto fino a quando, appena percettibilmente, sentii nuovamente quel rumore familiare della notte precedente. Allora non era stato solo un sogno. C’era davvero uno scheletro nella mia cantina. Facendo attenzione a non svegliare Karen scesi al piano di sotto e poi mi diressi verso lo scantinato. La luce della mia vecchia lampada verde e oro era già accesa questa volta. Lo scheletro, vestito sempre in smoking, era intento a scrivere sul taccuino rosso e a fumare un grande sigaro. Era quasi l’una di notte.
Senza troppi preamboli gli chiesi:
-Spiegami come posso riavere quello che ho perso, come posso ritrovare il mio spirito creativo?
-Semplice. Devi uccidermi?
Quelle parole mi lasciarono di sasso. Ci fu qualche momento di silenzio che mi sembrò un’eternità. Non sapevo né cosa dire né cosa pensare. Ero molto perplesso dalla risposta, come si uccide uno scheletro. Lo devo fare a pezzi, lo butto giù da un grattacielo, ci passo sopra con la macchina. Di certo non lo posso avvelenare. Come si uccide uno scheletro? Ma soprattutto, come si uccide una metafora?
Dopo un tempo indefinito dissi:
-Come faccio ad ucciderti?-
-Questo lo devi capire da solo…ma di certo non puoi uccidere una metafora con dei metodi tradizionali. Non trovi? Non funzionerebbero, e poi IO, non posso lasciare questo posto.-
Riflettei su quello che mi aveva appena detto, anzi dovevo riflettere con molta calma su cosa fare. Io sono fatto così, anche sulle cose semplici mi ci arrovello il cervello. Un tempo mi sarei messo seduto a scrivere sul mio diario. Scrivere su un taccuino i miei pensieri, i miei problemi, mi aiutava a focalizzarli. Magari non riuscivo sempre a trovare una soluzione, ma di sicuro la scrittura riusciva a mettermi in una condizione tale che affrontavo i problemi nel modo giusto. Magari era arrivato il momento di tornare a scrivere sul mio diario. Da quando mi sento in questo stato, non sono più riuscito a scrivere nemmeno una parola sul mio diario. Questa poteva essere l’occasione giusta per ricominciare. Sentivo che avevo bisogno di mettermi seduto a riflettere e a scrivere quello che mi stava succedendo. Quale occasione migliore che la manifestazione di una metafora dalle sembianze di uno scheletro nel mio scantinato per ricominciare a scrivere?
-Vedo che ci stai riflettendo…- disse lo scheletro -...direi che sei sulla strada giusta amico mio.-
Incredibile pensai, sono amico di una metafora/scheletro. Se non è una buona storia questa da scrivere non so proprio cosa lo possa essere…
All’improvviso lo scheletro mi disse:
-Ti sei forse scordato che con una stilografica in mano puoi essere qualsiasi cosa?-
Riflettei molto su queste parole. Era vero. Ho sempre considerato la scrittura la più alta forma di libertà che possa esistere in questo mondo. Invece adesso che la scrittura mi ha abbandonato, mi sento in una prigione.
-Ma come faccio a tornare a scrivere, così su due piedi?- chiesi.
-Dovresti saperlo amico mio, le storie, che siano saggi, pagine di diario, racconti o romanzi, si scrivono una frase per volta. Una parola dopo l’altra.-
Volevo fare un nuovo tentativo per scrivere. Per aspettare la notte e incontrare di nuovo lo scheletro nella mia cantina, decisi di fare un qualcosa che non facevo da molto tempo. In qualche modo volevo tornare alle mie origini. Presi la metro per andare a New York, volevo tornare alla caffetteria al Village dove ho conosciuto Karen e provare a scrivere qualcosa come facevo un tempo per passare la giornata. Mi sarei ordinato un toast e un caffè lungo e avrei provato a scrivere qualcosa sul mio vecchio e inseparabile taccuino. Volevo provare a scrivere qualche pagina di diario. Ma niente, le parole dalla penna stilografica, proprio non volevano uscire. Mangiai il mio toast e bevvi il mio caffè, ma di scrivere proprio non c’era verso. Dopo ore di tentativi, decisi di tornare a casa. Deluso mi trascinai verso la fermata della metro. Cosa c’era di sbagliato in me? Come potevo tornare a scrivere e superare questa crisi creativa? Come potevo uccidere una metafora? L’idea di ucciderla mi faceva stare male. In qualche modo mi ci ero affezionato, la sentivo come una parte di me. Mentre rientravo a casa vidi il mio riflesso su una vetrina, avevo perso peso, ero scheletrico.
Finalmente era notte. Potevo incontrare la mia metafora.
-Quando hai iniziato a scrivere, all’inizio, per chi lo facevi?-
Riflettei un attimo prima di rispondere.
-Mi piaceva scrivere, mi faceva stare bene, non scrivevo per nessuno in particolare, molto probabilmente scrivevo solo per me stesso.-
-Poi cosa pensi che sia cambiato?- chiese lo scheletro sbuffando qualche nuvola di fumo. Il sigaro in bocca era una costante per lui.
-Credo che quando ho iniziato a scrivere il secondo romanzo lo abbia fatto più per vana gloria, certo ero stimolato, ma probabilmente non stavo più scrivendo solo per me stesso, ma mi rivolgevo a tutte quelle persone che avevano comprato il mio primo libro. Credo che ho iniziato a scrivere per loro.-
-Allora ti rendi conto che qualcosa sia cambiato. Hai messo da parte il motivo per cui sei voluto diventare uno scrittore.-
-Credo che hai ragione, ho cominciato a correre dietro al successo. Non mi era andata tanto male col secondo libro, tutto sommato le vendite erano anche andate meglio del primo romanzo e inoltre per scrivere questo mio secondo libro, avevo ancora vecchie idee e molti appunti, scritti quando ero ancora in una fase molto creativa. Al terzo romanzo però, mi sentivo svuotato. Scrivevo meccanicamente, mi rendevo conto che mancava qualcosa alla mia scrittura. Quella passione che avevo all’inizio. La scintilla creativa. Quella marcia in più che avevo quando ho cominciato.-
-Non avevi più passione, il tuo spirito creativo stava morendo, stavi facendo nascere me. La TUA metafora.-
Mi ero addormentato, non ricordo quando. Durante la notte, tra un discorso e l'altro insieme allo scheletro ho finito per perdere i sensi. Mi ha svegliato mia moglie Karen che era scesa nello scantinato.
-Ecco dov'eri finito! Mi stavo preoccupando! Ma che diavolo di odore c’è qua sotto? Hai cominciato a fumare? In effetti sul tavolo c’era il mozzicone di un sigaro. L’aria era viziata e mia moglie aveva tutte le ragioni del mondo per essere infuriata.
Mi guardai intorno con aria attonita, dello scheletro non c’era più traccia. La stilografica e il taccuino rosso erano riposti in una scatola a fianco a quel vecchio tavolo logoro dove per tutta la notte avevo conversato con una metafora dalle sembianze di uno scheletro in smoking.
-Apri un po’ le finestre e fai cambiare l’aria!- disse irritata mia moglie.
Mi alzai dal vecchio divano. Avevo dolori ovunque, dovevo essermi addormentato in qualche posizione scomoda. Aprii le piccole finestre in alto dello scantinato. Un po’ d’aria avrebbe fatto bene alla stanza.
-Ma che diavolo ci facevi nello scantinato?-
La domanda era più che lecita. Non sapevo come rispondere, spesso finivo per addormentarmi nel mio studio quando scrivevo di notte, ma non avevo ragioni per addormentarmi qui tra queste vecchie cose.
-Stavo…cercando dei vecchi appunti, volevo riciclare qualche idea dai miei vecchi taccuini. Ho finito per fare tardi e addormentarmi su questo divano.-
-Hai bisogno di una doccia. Puzzi di fumo.-
-Hai ragione…-
In effetti sentivo in bocca il sapore del sigaro. Strano, non avevo fumato, era lo scheletro a fumare davanti a me. Probabilmente saranno stati gli effetti del fumo passivo ma il sapore in bocca era molto persistente.
-Sei però riuscito a scrivere qualcosa Jo?-
Solo Karen mi chiamava Jo e lo faceva con grande affetto. Gliene ero grato.
-Ancora no…-
Potevo leggere un po’ di delusione negli occhi di mia moglie, ma anche tanta speranza. Ero decisamente molto più deluso io. Eppure sentivo che qualcosa stava per cambiare.
-Sono sicura che tornerai a scrivere. Ti va di portare i gemelli a scuola? Almeno prendi un po’ d’aria.-
Si, ne avevo bisogno, avevo decisamente bisogno di schiarirmi le idee. Ne avevo poche e confuse. Quello che mi stava succedendo era decisamente fuori dal comune.
-Si, li porto volentieri. Faccio al volo una doccia.-
La giornata trascorse velocemente, più mi arrovellavo sui miei pensieri e più ero confuso. L’unico che poteva districare la matassa dei miei pensieri era proprio lo scheletro. Ero arrivato al punto di non vedere l’ora che arrivasse la notte per poterlo incontrare. Avevo bisogno di parlare con lui. Sentivo che queste nostre conversazioni in qualche modo mi stavano facendo bene, anche se nel concreto continuavo a non mettere nero su bianco nemmeno una parola. Ho sempre pensato che dentro ognuno di noi ci sia il seme per essere ciò che desideriamo. Dobbiamo solo trovare il modo giusto per innaffiarlo e farlo crescere come vogliamo, forse il modo che ho trovato è quello di una metafora, la metafora di uno scheletro. Tutti hanno uno scheletro nell’armadio, il mio è in cantina, fuma il sigaro, veste impeccabile e mi aiuta a tornare a scrivere.
-Ma non potresti venire nel mio studio a parlare con me?
-No non posso..-
-Perché?- chiesi
-Perché posso manifestarmi solo qui…-
-Perché?-
-Perché questo è il posto dove riponi tutte le cose che non usi più….io sono una di quelle.-
Una risata gelida e un brivido lungo la schiena.
-Tu e io siamo legati, spero che te ne renda conto.- disse lo scheletro fissandomi con quelle orbite nere -abbiamo un legame indissolubile. Esistiamo uno nell’altro.-
Non capivo bene quello che mi stava dicendo. Più ci riflettevo e meno ne venivo a capo.
-Non c’è metafora senza che qualcuno l’abbia creata. Il concetto stesso di metafora senza creatore, non può esistere. La realtà stessa cesserebbe di esistere.-
Riflettevo sulle parole dello scheletro in silenzio. Tutto aveva una sua logica. Come nel mondo. Tutte le cose sono legate con un filo invisibile l’una con l’altra. Probabilmente anche io e lo scheletro eravamo legati l’uno all’altro con il filo invisibile della vita.
Meditavo su questi discorsi ma non riuscivo a giungere ad una conclusione.
-Ascoltando le tue parole non riesco a giungere ad una conclusione. Dovrei provare a scrivere qualche pensiero qui insieme a te. Mettere nero su bianco i miei pensieri per provare a venirne a capo.-
Avevo deciso di trasferire lo studio in cantina, li sarei stato in grado di scrivere e stare insieme allo scheletro per farmi aiutare a superare il mio blocco e cercare un modo per uccidere la mia metafora. Penso di essere davvero fuori di testa in questo momento. Uccidere una metafora. Come si uccide una metafora?
-In che senso vuoi metterti a scrivere in cantina?-
Mi chiese Karen stupita dopo avergli spiegato che volevo portare lo studio nello scantinato.
-Come te lo posso dire…mi inizio a sentire più creativo in cantina, sento che la mia creatività è morta la sotto, in mezzo alle mie vecchie cose ed è lì che devo andarla a ricercare.-
Non ero convinto nemmeno io della risposta che avevo dato a mia moglie. Però in questo modo, la notte, avevo la possibilità di provare a scrivere insieme allo scheletro.
Con molta fatica feci ordine nello scantinato e piano piano avevo portato le mie librerie con tutti i volumi che possedevo, il giradischi con la mia collezione di vinili, la scrivania e la sedia. Avevo lasciato il tavolo e la sedia dove si manifestava lo scheletro, facendo molta attenzione a non spostare nulla per paura che, se cambiassi qualcosa, lo scheletro non sarebbe più comparso. Dopo quasi tutta la giornata di trasloco, ero riuscito nell’intento. Avevo lasciato tutte le vecchie cose nello scantinato, pensavo che se avessi tolto qualcosa probabilmente lo scheletro avrebbe finito per manifestarsi in soffitta. Anche se non ne capivo il perché, tutto nella mia testa sembrava avere una sua logica.
-Ma perché tutta questa fatica per spostare tutto il tuo studio?- chiese mia moglie.
-Perché sento che lì sotto c’è la mia creatività ad aspettarmi tutte le notti…-
-Stai dormendo poco in questo periodo, guarda che brutte occhiaie che ti ritrovi, sembri uno scheletro!-
La frase di Karen mi lasciò molto perplesso/interdetto.
-Come hai perso la tua vena creativa?-
-Penso che la delusione per le critiche al mio ultimo romanzo mi hanno devastato…- risposi -non sono più stato in grado di scrivere una parola. Vorrei tanto tornare indietro…-
-Purtroppo possiamo solo andare avanti.-
-Indietro possiamo tornarci solo attraverso i ricordi.-
-Come pensi di uccidermi e superare questo blocco creativo?-
-Probabilmente se lo sapessi tu a quest’ora non saresti più nel mio scantinato.-
-Come ti è venuta la passione per la scrittura?-
Ammetto che la domanda mi colse di sorpresa. Non sapevo come rispondere. Dovevo tornare indietro con la memoria a tanti anni prima, quando ero un adolescente. Ma cosa mi aveva realmente spinto a iniziare a scrivere? Per rispondere a questa domanda dovevo scavare nel mio passato, ritrovare il mio bambino interiore, quello che passava ore a leggere fumetti o a guardare film, innamorato perso delle storie. Amavo leggere, amavo perdermi in mondi fantastici, in avventure senza fine, in loschi intrighi internazionali. E poi un giorno, la mia mente da bambino si chiese: perché non potrei inventarle anche io delle storie. Presi un bloc notes e una penna e cominciai a scrivere. Fu una sensazione meravigliosa, ancora, riesco a ricordarlo quel momento da bambino, in cui cominciai a scrivere una storia per la prima volta. Ero sempre io il protagonista di quelle storie, affrontavo draghi in mondi fantastici, spie al soldo del nemico, ero un soldato che cambiava le sorti della guerra. Mi accorsi che amavo raccontare storie attraverso la scrittura.
-Devi ritrovare questo spirito per tornare a scrivere- mi disse lo scheletro.
-Non è semplice. Ora non ho più quell’ingenuità che avevo da bambino. Dovrei rinascere….-
-Dovresti uccidermi…-
Uccidere una metafora. Eppure tra le cose che ci eravamo detti c’è stato un qualcosa che mi ha acceso una scintilla. Tempo fa discutemmo del fatto che io e lui siamo legati, ero giunto alla conclusione che la sua essenza è una parte di me. Lo scheletro l’ho creato io. Questa metafora l’ho creata io. Ma se in realtà fossi io la metafora? Cosa accadrebbe se non esistessi più? Anche lo scheletro cesserebbe di esistere? Forse è questo l’unico modo per uccidere una metafora. Uccidere il suo creatore.
-Forse ho trovato un modo per ucciderti…- dissi rivolto allo scheletro.
-Quale sarebbe?- mi rispose.
-Ho capito che probabilmente non sei tu la metafora, sono certo di essere io la metafora tra noi. Pertanto se mi tolgo la vita sono sicuro che tu cesseresti di esistere. In questo modo riuscirei ad ucciderti-.
-E poi cosa pensi che succederà? Cosa ne sarà di te?-
Ci pensai su un attimo, alle conseguenze ancora non avevo pensato. Rimasi qualche momento in silenzio.
-Spero di tornare finalmente me stesso. Non questo pallido impostore in cui mi sento rinchiuso.-
-E se non dovesse funzionare?-
-Deve funzionare.-
Non potevo starci troppo a pensare, avevo preso una decisione, presi la lama di un taglierino dagli attrezzi che avevo nello scantinato e con un gesto deciso mi tagliai entrambi i polsi. Il sangue cominciò a sgorgare copiosamente sul pavimento. Ho pensato che andarmene così, sia il modo meno doloroso. Infatti stranamente non provai tanto dolore. Lentamente mi sarei addormentato senza rendermi conto di niente. Mi sedetti di fronte allo scheletro. Le sue orbite vuote e scure mi fissavano e il suo ghigno fu l’ultima cosa che mi ricordai prima che il mondo intorno a me diventasse tutto nero. Ero morto.
Lentamente ripresi coscienza. Aprii gli occhi molto piano, la fioca luce della vecchia lampada verde e oro sul tavolino illuminò le mie mani che misi lentamente a fuoco. Ero vestito col mio smoking dei grandi eventi. In mano avevo un sigaro acceso, in bocca il sapore del tabacco. Nell’altra mano la penna stilografica. Davanti a me il taccuino rosso dove stavo scrivendo questa storia. Ero tornato.
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